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Il piacentino Vincenzo Colla nuovo segretario CGIL Emilia Romagna. 

Vincenzo Colla è il nuovo segretario generale della Cgil regionale Emilia Romagna.
E’ stato eletto questa mattina con voto segreto dal Comitato Direttivo della struttura regionale, riunito presso la Camera del lavoro di Bologna con la partecipazione del segretario nazionale Cgil Enrico Panini. La votazione ha avuto i seguenti risultati: votanti 142 (su 177 aventi diritto), favorevoli 93, contrari 28, astenuti 21.
Nato ad Alseno di Piacenza l’1 aprile ’62, Colla ha iniziato la propria esperienza sindacale nel 1980 come delegato di una azienda metalmeccanica ed è entrato nella segreteria provinciale Fiom di Piacenza nel 1985. Due anni dopo è stato eletto segretario generale della stessa Fiom e nel ’96 è diventato segretario generale della Cgil piacentina. Nel 2002 è passato in segreteria Cgil regionale, nella quale ha diretto il Dipartimento organizzazione per otto anni e che da oggi guiderà come primo responsabile.
Colla subentra nell’incarico di segretario generale Cgil Emilia Romagna a Danilo Barbi, che è stato eletto nei giorni scorsi nella segreteria nazionale Cgil.
Il Comitato Direttivo di questa mattina ha avviato anche il percorso per l’elezione della segreteria regionale, votando il comitato dei saggi che dovrà procedere alla consultazione.



DICHIARAZIONE PROGRAMMATICA
Vincenzo COLLA
DIRETTIVO 5/7/2010


Stiamo vivendo una fase sociale, economica e politica inedita nel mondo, in Europa, in Italia e questa regione, facendo parte di questo mondo, subisce e vive tutta la complessità e la negatività conseguenti alla crisi.

Questa crisi, inedita per durata e dimensioni, sta avvolgendo tutti noi in un drammatico senso di incertezza sul futuro.

Tuttavia, la crisi in corso ha già creato una certezza: un impatto negativo dirompente sulla gente che lavora, sui pensionati, sulle donne e sui giovani.

Basti pensare ai licenziamenti di massa, a un precariato di massa, ad una disoccupazione di massa: tre fenomeni che, se non fermati, metteranno in discussione la coesione sociale del nostro paese.

Non può bastare per la CGIL affermare che il nostro recente congresso aveva previsto tutto questo, mentre invece l’intero gruppo dirigente politico del nostro governo continuava a negare o – ancor peggio – a celare la verità.

Nel momento in cui la crisi sta deflagrando, assistiamo nel nostro paese al più grande investimento politico - progettuale che sfrutta gli effetti della crisi stessa per chiudere il cerchio del più imponente disegno autoritario ed antidemocratico mai visto negli ultimi decenni nel perimetro dell’Europa occidentale.

I primari strumenti per affermare tale progetto sono manovre economiche di classe, le quali hanno una carica di iniquità insopportabile per la nostra gente e che finiscono con lo spingere un intero ceto medio che lavora nella fascia di povertà e col condannare chi già povero lo è alla certezza di restarlo.

Tuttavia tali manovre rivelano una lucidità politica per la loro efficacia nel garantire un elettorato di riferimento per niente preoccupato del futuro del paese. Emblematica è l’adesione alla manovra di Confindustria e delle associazioni imprenditoriali.

Certo il profilo delle manovre economiche in Europa evidenzia tratti comuni, ma in nessun paese contestualmente si progetta - ma nemmeno si pensa – di scardinare i poteri di garanzia democratica e costituzionale.

In Italia non solo la manovra, ma anche l’azione legislativa ed ideologica del governo si muovono con coerenza secondo quattro direttrici:
Rendere marginale, isolata e priva di un ruolo di azione generale la CGIL dividendo il movimento sindacale;
Controllare la magistratura agendo sulle nomine politiche e limitandone le funzioni;
Imbavagliare la libera informazione;
Mettere lo statuto dei lavoratori a mercato, imponendo lo statuto dei lavori.

E’ evidente che per la riuscita di tale progetto occorre dare una spallata ad interi pezzi della Costituzione, facendola passare come inadeguata, vecchia e limitata nel dare risposte alla crisi e alle giovani generazioni. In sintesi stiamo assistendo ad uno scempio ideologico.


E’ su questo punto che vi consegno il mio primo impegno programmatico - si dice così - ; in realtà è prima di tutto un fatto valoriale intimo profondo e solo in un secondo momento un punto politico degli uomini e delle donne di questa CGIL di questa regione. Per quanto mi riguarda, saremo uniti e schierati a difendere questa Costituzione insieme al popolo di questa regione e alle forze istituzionali - politiche, mettendo in campo – se sarà necessario – il più grande schieramento di mobilitazione culturale, politica e organizzativa per essere all’altezza di questo scontro dirimente. Infatti, se vincono loro, io non voglio stare in una CGIL che potrebbe diventare per sua funzione solo un grande ente bilaterale finanziato dallo stato e dai padroni. Non saremmo neppure in grado di immaginare il nostro paese senza questa Costituzione, mentre noi vogliamo poter immaginare un paese.
Ora, fatta questa premessa, diventa evidente l’importanza ed il ruolo che rivestono questa regione e la CGIL di questa regione.

Ricordiamocelo, ci sono un’aspettativa ed una fiducia consegnate a noi ben oltre la nostra rappresentanza. Non si fanno le manifestazioni e lo sciopero del 25 giugno senza quegli ingredienti; un fatto politico splendido, ma che ci consegna interrogativi molto forti.
In questa fase siamo in grado di mantenere quella fiducia? Siamo attrezzati con un’idea progettuale di medio periodo per rafforzare la nostra rappresentanza? Siamo organizzati con coerenza per affermare le nostre idee programmatiche di fronte a questo bisogno di cambiamento? Sarebbe populismo sindacale dire di no, ma anche irresponsabile dire di si. Infatti tra il no ed il sì si deve collocare il nuovo progetto di azioni programmatiche che il nuovo gruppo dirigente ha il dovere di consegnare a questo Comitato Direttivo.

Io vedo due direttrici ideali di posizionamento simbolico.
La prima consiste nel recuperare una nostra decisione del passato per poi contestualizzarla evolvendola: sto pensando allo slogan congressuale “Una regione come fosse una grande città”. Era già stata intuita l’importanza di un lavoro a rete, del valore del lavoro, delle istituzioni, del welfare e dei diritti dei singoli. Già si vedevano i primi effetti della globalizzazione. Quella città va messa in manutenzione per farla diventare un’intera regione.
La seconda direttrice simbolica attuale, indispensabile, cogente e bisognosa di azioni radicali: “Un grande piano del lavoro per l’Emilia Romagna”. E’ un titolo coerente al nostro congresso in quanto - senza lavoro - non solo non c’è la CGIL, ma non può neppure esserci l’Emilia Romagna virtuosa che abbiamo conosciuto e che non vogliamo perdere.

Tale impegno ha una portata simbolica emotiva evidente per tutti noi: ci riporta ad una riflessione sulla nostra storia, sull’identità e sull’operato dei nostri Dirigenti, dei segretari generali, una consegna di responsabilità molto forte, quasi totale. Come tutti sappiamo, il piano per il lavoro venne proposto con molta forza da Di Vittorio, il quale lo consegnò poi al paese – tramite tutta la CGIL - quale sfida per garantire il lavoro come condizione di emancipazione ed uguaglianza.

Questa sfida concernente il valore del lavoro deve diventare un pensiero radicato, come ci ricorda un compagno cattolico quale Cacace: “Affermare la piena occupazione sembra un timore per la cultura di sinistra, mentre dovrebbe essere il tratto trainante del nostro progetto, della nostra azione, se serve, della nostra mobilitazione senza tentennamenti.”

Ora da quei due perni dobbiamo essere in grado di fare discendere piattaforme tematiche contrattuali, negoziali, che alla bisogna si possano tramutare anche in piattaforme vertenziali finalizzate agli accordi: infatti, in questa regione più che mai, anche per rafforzare la CGIL nazionale dobbiamo mantenere la cultura e l’obiettivo di un nostro agire che produca accordi innovativi, sia a carattere difensivo che acquisitivo. Pensiamo alle parole di Trentin - “Contrattare sempre” – quale essenza del nostro esistere.

Perché un piano del lavoro nella nostra regione? Per rispondere a questa domanda basta leggere i dati in nostro possesso, a cui sono destinati ad aggiungersene altri sempre più negativi. Dal 1 settembre 2010 nel mondo della conoscenza avremo la perdita di 3.000 posti di lavoro che si aggiungono ai precedenti.

Nel mondo del lavoro pubblico il blocco del rinnovo del 50% dei contratti ai precari ed il blocco del turn over creeranno migliaia di senza - lavoro.

Nell’universo del lavoro privato già si registra un calo drastico degli occupati in età lavorativa, mentre sono 50.000 i lavoratori che stanno utilizzando ammortizzatori sociali. Non cito i dati della disoccupazione in quanto ormai indicatore inattendibile nel paese, ma anche nella nostra regione. E’ evidente che serve allestire un’analisi e una ricerca innovativa all’altezza dell’impatto di questa crisi sulle persone, siano esse lavoratori, giovani o pensionati. Non ci possiamo limitare ad evidenziare la drammaticità insita in questi dati; il nostro mestiere è la capacità di risposta ai variegati bisogni individuali e collettivi.

La prima risposta già data - e peraltro di rilievo – consiste nei 5.000 accordi sindacali fatti di utilizzo di ammortizzatori sociali, per ora in grado di attutire l’inserimento dei lavoratori in mobilità: pratica drammaticamente insufficiente nel breve e ancor più nel lungo periodo.

Se non si conoscono le dinamiche nel suo insieme, se non si è consapevoli delle condizioni materiali e culturali dell’impatto di questa crisi sulla gente, la nostra risposta sarà debole, parziale e minoritaria.

Pertanto, il nuovo gruppo dirigente dovrà rilanciare e rafforzare tutte le tematiche che vanno sotto il nome di “politica dello sviluppo territoriale e regionale, dell’innovazione tecnologica, dell’innovazione istituzionale e dell’innovazione fiscale nella nostra regione”. Diventa altresì indispensabile rafforzare ed evolvere l’ottimo lavoro svolto dal nostro istituto di ricerca IRES, mantenendo il tema Emilia Romagna - Europa. Quindi occorre implementare un piano delle politiche di ricerca sociale utili non solo alla realizzazione degli indispensabili convegni o iniziative, ma anche e soprattutto al concepimento di un grande progetto di formazione dei nostri giovani dirigenti e delle nostre RSU di questa regione. Abbiamo 10.000 rappresentanze sindacali unitarie della CGIL. Rischiamo di lasciarle sole, prive di strumenti idonei alla sfida e di conoscenza della forza della confederalità. Non scommettere in tale direzione sarebbe un delitto sindacale, un freno alla crescita futura della CGIL, ma soprattutto alla sua capacità di rinnovamento generazionale.

Penso che queste tematiche debbano essere sviluppate da un unico e nuovo dipartimento, concepito a filiera lunga sia al nostro interno che all’esterno e in grado di coinvolgere i dirigenti delle Camere del lavoro e delle categorie regionali e territoriali, affermando una nuova cultura del’integrazione tra strutture, ed avvalendosi - quale supporto – delle competenze presenti nel nostro sistema dei servizi. Dobbiamo essere in grado – su tali tematiche – di coinvolgere un mondo dell’intellettualità esterno a noi, ma tanto utile per evitare di essere noi stessi limitati nell’innovazione e nel nostro riformismo.
Vi sono tante persone che operano nei settori della conoscenza e dei saperi che vogliono bene alla CGIL e che le riconoscono un ruolo indispensabile nella società regionale. Esse sono disponibili ad elaborare con noi e per noi. Queste disponibilità non vanno lasciate alla sola e sporadica pratica convegnistica, ma vanno sfruttate nella loro interezza anche inserendole in una rete a disposizione di tutte le nostre strutture.

Stiamo parlando di un dipartimento nuovo, strategico, di pensiero lungo, e - ammetto – avrei anche già individuato il compagno che ha tutta l’autorevolezza, le conoscenze e le qualità per coordinarlo, governarlo e rendere unica la CGIL di questa regione.

Ora apro il capitolo dell’impatto della crisi e di questa manovra sulla tenuta istituzionale della regione Emilia Romagna.

E’ palese come questo contesto ci induca a rivedere le modalità di negoziazione con il sistema istituzionale; al contempo dobbiamo rivendicare sedi di programmazione partecipata sulle politiche dello sviluppo e del welfare. In tal senso non va dimenticato tutto il patrimonio fin qui prodotto dalla CGIL regionale, dalle Camere del Lavoro, dalle categorie, ed in particolare dallo SPI e dalla FP. Tuttavia la fase impone un cambio di passo politico ed organizzativo; questa manovra – se attuata – muterà nei fatti radicalmente la capacità di risposta istituzionale ai variegati bisogni che una società complessa come quella della nostra regione richiede.

Sviluppo, servizi, welfare, lavoro pubblico: quattro aree di intervento istituzionale la cui qualità definisce il tratto democratico della coesione sociale e della qualità di una regione - quale la nostra - in grado di competere per parametri alle più evolute esperienze del Nord Europa.

Noi vogliamo difendere questo modello. La CGIL regionale deve coordinare questa volontà. Tuttavia, per difendere proprio quel modello, va condivisa una indispensabile premessa: quel modello va innovato profondamente al fine di renderlo sopportabile economicamente, mantenerlo universalistico, di qualità ed equo nei suoi criteri di finanziamento.

Per realizzare questo intento serve un punto di vista nostro, autonomo nel rapporto con la Regione, ma occorre - al contempo - anche assumere senza tentennamenti come sfida politica quanto va affermando questa regione con il suo presidente sul patto di stabilità, arrivando a minacciare di restituire le deleghe Bassanini affidate alle regioni sulla mobilità. In sintesi non dobbiamo solo condividere l’inevitabile scontro tra le istituzioni di questa regione e il governo, ma richiedere anche di rideterminare un nuovo patto per un modello possibile alternativo di finanziamento del sistema delle autonomie di questa regione.

Tuttavia questa manovra creerà contraddizioni politiche anche all’interno della compagine governativa . Stare al governo delle regioni del nord con quella manovra è un problema di rilievo, ma lo è ancor di più per le regioni del sud. Si tratta di una evidente contraddizione destinata ad esplodere. Infatti, ad oggi, non esistono ancora tabelle sui conti finanziari della manovra, se non l’ultima follia annunciata da Bossi e Tremonti: tenendo fermi i risparmi programmati, le regioni saranno libere di tagliare dove vogliono. Una vera babele istituzionale, una vera finanza creativa anche se ormai diversi sono i segnali di un indebolimento del governo.
Saranno costretti ad accelerare, siamo al dunque sul federalismo. E’ annunciato il provvedimento dell’autonomia impositiva al posto dei mancati trasferimenti: vanno definiti i costi standard e i livelli di solidarietà.
Lo stesso provvedimento prevede autonomia impositiva sulle persone, sulle attività e sui patrimoni da parte delle regioni. Quindi in questa regione si rinnova la nostra sfida di valenza nazionale già alla base dello sciopero del 12 marzo e del 25 giugno 2010: in sintesi, concepire e lottare per un modello alternativo, che affermi che è possibile un’alta tassazione delle rendite e dei patrimoni unita ad una lotta all’evasione senza precedenti quale azione e comportamento in carico anche alle istituzioni dell’Emilia Romagna allo scopo di garantire qualità dello sviluppo del welfare e coesione sociale. Non è il socialismo reale, bensì un modello alternativo a quello insito nella manovra governativa e nella cultura dominante. Non possiamo permetterci di aspettare le decisioni del G8 - ormai compagine relegata al proforma – o del G20 per rispondere ai bisogni della nostra gente. Come sempre, c’è un modello alternativo che inizia affermando fatti concreti anche dal basso: esso va praticato per renderlo esempio ai tanti.

E ancora. Come non vedere l’importanza del ruolo della contrattazione sociale di tutela individuale soprattutto in tempi di crisi? Bene, noi dobbiamo essere in grado di fondere contrattazione sociale e contrattazione dello sviluppo territoriale quali due facce della stessa medaglia
Infatti non possiamo permetterci che qualche sindaco pensi che regga ancora aprire il confronto come semplice prassi dovuta per discutere con noi il bilancio, comunicandoci l’elenco dei tagli ai servizi o sommergendoci di piagnistei sui fatti. Inoltre, è anacronistico pensare che nel rapporto con la regione si possa discutere di ticket o di altri balzelli in questo momento difficile. Verremmo giudicati inesorabilmente come incapaci di intendere e vedere le condizioni materiali di lavoratori e pensionati. Per realizzare gli obiettivi illustrati, dobbiamo riflettere anche sul tema delle alleanze politiche e istituzionali così come si sono rese visibili nella difesa della Costituzione; occorre anche interrogarsi seriamente sul come coinvolgere preventivamente in una logica di mandato democratico lavoratori e pensionati. Questo è stato fino ad ora un limite evidente che va colmato.


Nel mentre dovremmo condividere tra strutture le modalità di partecipazione ai tavoli istituzionali regionali già avviati:
Rinnovo del patto per attraversare la crisi e suo finanziamento;
Piano triennale attività produttive;
Piano triennale dell’energia;
Nuovo tavolo internazionalizzazione;
Piano casa;
Progetto nuova sanità e welfare;
Avvio poli tecnologici;
Presenza nella tripartita istruzione e formazione.
Inoltre questa legislatura sancirà due atti legislativi fondamentali. Il primo: renderà attuativo il nuovo PTR. A tal proposito abbiamo già detto che la proposta va riempita, ma ne condividiamo concetti e linee di sviluppo. Il secondo: verrà determinato l’atto che sancisce la costituzione dell’area vasta metropolitana bolognese con il superamento della provincia. Si tratta di un fatto di grande novità che va discusso come un’opportunità per valorizzare e qualificare tutta la regione. Su tutte queste materie va allestita una discussione tra di noi preventiva, coordinata dall’esecutivo regionale e il ritardo che abbiamo va colmato nel più breve tempo possibile.

Soffermiamoci ora su un nodo cruciale del nostro agire quale quello di una contrattazione diffusa di secondo livello, condizione basilare per affermare quel processo di cambiamento delineato anche al nostro congresso. Solo la contrattazione di secondo livello è in grado di sconfiggere l’idea di fondo emersa drammaticamente coi fatti di Pomigliano: in quel contesto il problema non consisteva tanto nei turni di lavoro quanto nella volontà di affermare – strumentalizzando la crisi - la possibilità di utilizzare i lavoratori e le lavoratrici a proprio piacimento, per poi eventualmente metterli in cassa integrazione o peggio ancora renderli precari. In sintesi, un modello contrattuale senza regole, privo di diritti e subalterno alle imprese. E’ questo il vero rischio di un modello che può attecchire in forma diffusa nella nostra regione. Per tali motivi, noi dobbiamo richiedere alla regione e alle associazioni imprenditoriali di aggiornare il patto per attraversare la crisi; a quel patto va data un’altra tenuta sociale in quanto la crisi in corso ha oggi ripercussioni ben diverse rispetto allo scorso anno sulle condizioni di vita dei lavoratori. Infatti, se anche l’Emilia Romagna si adegua – seppur in forma morbida – ad una caduta dei diritti per fare fronte alla classica logica di mercato, si rischia di vedere il sindacato scivolare lentamente in un ruolo di subalternità e di assistere alla proliferazione di interessi corporativi. La nostra scommessa è avere imprese con dentro i lavoratori a condizioni retributive tali da permettere di attraversare la crisi. Nello stesso tempo, avviando una contrattazione di secondo livello acquisitiva ove possibile, va dimostrato che vi sono modalità alternative per superare la crisi. Anche in questo caso, serve un nuovo modello di azione del dipartimento che si occupa delle politiche contrattuali regionali: sto pensando ad un modello che sia maggiormente in rete coi bisogni della categorie territoriali a fianco delle categorie regionali e – al contempo – in grado di creare una nuova idea di politica contrattuale capace di tenere insieme impresa e legame col territorio, impresa e produttività, impresa e professionalità, impresa e diritti. In sintesi occorre lavorare nel concreto - anche scontrandoci – per affermare un modello di relazioni sindacali dentro la crisi e oltre la crisi. Ecco perché il dipartimento va coordinato con il modello della filiera lunga in grado di coinvolgere i saperi e le esperienze dei dirigenti delle categorie regionali e territoriali e delle Camere del lavoro per determinare un piano di mandato sulle politiche contrattuali pubbliche e private in grado – per la sua innovazione – di attivare una discussione nelle sedi nazionali della CGIL.

Mi avvio a concludere proponendovi tre valutazioni programmatiche interne riguardanti politiche organizzative, confederalità in questa regione e rapporto politico con la mozione “CGIL che vogliamo”.

La prima. E’ evidente che questa crisi e la manovra colpiranno anche noi sul terreno delle risorse finanziarie: blocco delle pensioni, livelli occupazionali avranno un impatto negativo certo e strutturale sulla rappresentanza e sulle nostre entrate. Se a questo aggiungiamo quello che questo governo può pensare di fare per colpire il nostro sistema dei servizi – in specifico INCA e CAF - , si rende più che mai necessario attuare la scelta politica già condivisa, ma non attuata adeguatamente rispetto ai bisogni che abbiamo di fronte. Lo cito come slogan: se centrale è il territorio, deve essere meno centrale qualcos’altro. Quindi penso che sia corretto avviare una discussione anche sulla struttura regionale confederale per fare in modo che – rafforzando l’integrazione tra strutture – sia possibile un’ulteriore planata della struttura dei costi sostenuti allo scopo di liberare risorse destinate a progettualità territoriali. Ritengo auspicabile non certo una diminuzione del ruolo e dell’autorevolezza del regionale, bensì un suo rimodellamento per farne una struttura più flessibile nella gestione delle responsabilità e più strutturata a progetto. Solo così il regionale sarà in grado di essere di volta in volta al posto giusto nel momento giusto. Non penso a un regionale camera di compensazione coi territori, non penso a un regionale che applichi semplicemente lo statuto per arrivare a fine mandato.

Nello stesso tempo dire che centrale il territorio non significa che tutto lì stia funzionando al meglio. I rischi della crisi e della manovra lì sono cogenti sia sulla tenuta della rappresentanza sia sulla tenuta delle entrate economiche. Mettere in discussione rappresentanza e risorse significa nei fatti di mettere in discussione il nostro libero e autonomo agire sindacale. Per questi motivi il dipartimento delle politiche organizzative regionali deve dare rigorosa attuazione ai deliberati definiti dalla nostra conferenza di organizzazione e recepiti definitivamente dal nostro congresso. Tuttavia siamo ben consapevoli che l’attuazione di tali deliberati non può consistere in un automatismo burocratico, anzi in questo ambito intravedo una sfida vera, riguardo alla quale abbiamo registrato differenze sostanziali tra di noi durante la discussione congressuale.

Mi riferisco al secondo punto organizzativo interno: quale confederalità vogliamo e condividiamo. Penso di avere una certezza: l’applicazione di quel punto nel territorio risulta ben più strategico rispetto ai livelli superiori dell’organizzazione. Per questi motivi deve essere applicata con forza la realizzazione dei bilanci sociali territoriali: il bilancio sociale non può rappresentare uno sterile rito amministrativo, ma è lo strumento nel territorio per determinare tra confederazione, categorie e servizi il nuovo patto di confederalità e di azione teso a qualificare la nostra presenza nel territorio e ad aggredire e conquistare i tanti spazi di nuova rappresentanza al fine di tutelare e contrattare al livello di qualità richiesto. Il patto deve consentire inoltre di rafforzare le solidarietà tra strutture quale condizione indispensabile per non arretrare sul territorio e sancire una vera e strutturale politica dei quadri. In tale contesto progettuale il dipartimento regionale è candidato a porsi come garante da Rimini a Piacenza nella determinazione di parametri e regole condivise e coerenti.

Concludo con l’ultimo punto. In base alla mia concezione della CGIL, del suo ruolo e della sua storia, tale decisione riveste un ruolo fondamentale anche per trasparenza politica tra di noi. Mi riferisco al fatto che, dopo un congresso dalle modalità inedite come quello appena concluso, oggi siamo tutti chiamati a definire gli assetti del gruppo dirigente. I comitati direttivi in questa regione sono stati tutti costruiti nel rispetto del pluralismo; siamo nella fase finale di composizione degli esecutivi. Lo scenario regionale ci consegna decisioni politiche variegate in merito. Domani la mozione “La CGIL che vogliamo” andrà a costituire un’area programmatica in applicazione delle regole statutarie. Non mi sfugge il bisogno di radicalità in tale contesto, ma nello stesso tempo mi interrogo seriamente essendo a mio avviso un atto che non ha precedenti così strutturati nella vita della nostra organizzazione. E’ del tutto legittimo che i compagni e le compagne vogliono far vivere quell’idea e i punti politici alternativi alle conclusioni politiche del congresso, ma c’è un punto politico che consegno ora ai compagni e alle compagne della mozione 2 che hanno ed avranno sempre la mia stima. Io penso, anche supportato dalla stessa consapevolezza dentro la maggioranza, che - dentro la drammatica complessità della fase che stiamo vivendo – il rischio di avere una CGIL più piegata a spiegare le proprie ragioni interne che ad affrontare con la forza di tutti i problemi e i bisogni della nostra gente imponga di riconoscere il patrimonio di idee e competenze di tutti noi quale fatto indispensabile per l’unità della CGIL. Per questi motivi io penso che vi siano le condizioni per provare a proporre un percorso di gestione unitaria, che va delineato, discusso e approvato da questo comitato direttivo. Su questo percorso ritengo possibile – a partire dalla Segreteria regionale – provare a gestire unitariamente le scelte e i processi in questa regione. Ci sono a mio avviso le condizioni per provarci e vi chiedo quindi di provarci. Ne deriverebbe un indiscutibile rafforzamento dell’autorevolezza tanto della maggioranza quanto della minoranza. Diversamente non vorrei immaginare in questa regione una logica del nostro agire tra maggioranza e opposizione, ho il timore che questo non solo cambierebbe la nostra storia, ma inciderebbe anche negativamente sull’efficacia della nostra azione sindacale. Ai compagni della “CGIL che vogliamo” dico che rispetterò comunque la vostra decisione. Ora spetta a voi decidere, sapendo che la gestione unitaria rappresenta anche una precisa assunzione di responsabilità nel rappresentare non solo le vostre idee, ma tutta la CGIL e le decisioni che questo comitato direttivo assumerà di volta in volta.

Non ho mai pensato di essere esaustivo con una dichiarazione programmatica, ma guardando voi e conoscendo voi ho avuto la serenità nel dare la disponibilità alla CGIL nazionale per la candidatura. Come sempre rispetterò la volontà di questo comitato direttivo e, se sarò eletto, oltre a tener fede a quanto detto fino ad ora, mi impegno a una lealtà nei vostri confronti per voi e per la CGIL quale condizione per essere capiti e riconosciuti dalla gente che rappresentiamo.