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Campagna Filcams-Nidil "Dissòciati". Commesse assunte come "associate" a loro insaputa con il miraggio dell’assunzione. "L’inganno si scopre quando lo stipendio scende"


Roma, 9 novembre 2011 – Partirà questa settimana “Dissòciati!” la campagna della Filcams CGIL e di NIdiL CGIL contro l’abuso del contratto di associazione in partecipazione nel commercio e nei servizi.

L’iniziativa sarà presentata nel corso di una conferenza stampa venerdì 11 novembre alle ore 12 presso la libreria Feltrinelli della Galleria “Alberto Sordi” (già Galleria Colonna) a Roma. Alla conferenza stampa saranno presenti i segretari generali di Filcams e NIdiL, Franco Martini e Filomena Trizio.

L’utilizzo del contratto di associazione in partecipazione in sostituzione del regolare contratto di lavoro dipendente priva commesse e commessi di molti diritti: un commesso assunto come associato in partecipazione ha infatti stipendio e pensione più bassi rispetto ad un dipendente, e nessuna indennità di disoccupazione in caso di perdita del posto di lavoro. I vantaggi sono esclusivamente per l’azienda che sostiene costi più bassi. Il reddito medio degli oltre 50.000 associati in partecipazione iscritti alla gestione separata Inps nel 2010 è stato infatti di meno di 9000 euro annui, pari all’incirca a 750 euro al mese.

Nel corso della campagna, che prevede la presenza di punti informativi all’interno dei luoghi strategici del commercio (centri commerciali, centri storici, outlet) di cinque grandi città (il 12 novembre a Roma, il 19 novembre a Firenze e Modena e il 26 novembre a Padova e Bari), Filcams e NIdiL raccoglieranno le segnalazioni dei lavoratori in merito alle aziende che abusano del contratto di associazione in partecipazione; in una seconda fase il sindacato chiederà di incontrare le aziende stesse e interverrà per sanare gli abusi.

Le segnalazioni potranno essere inviate anche tramite il sito www.dissociati.it, sul quale saranno inserite tutte le news relative alla campagna e uno strumento che consentirà ai “finti” associati in partecipazione di scoprire quanto dovrebbero guadagnare se fossero assunti con un regolare contratto.

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Fare la commessa. Lavorare fianco a fianco, eseguire le stesse mansioni della collega che ha un contratto di lavoro subordinato. Scoprire (solo dopo però) di venire pagata molto meno di lei, senza alcun diritto e indennità, rispetto a chi lavora nello stesso scintillante negozio. In un mondo in cui nessuno assume più a tempo in
determinato, le grandi catene di abbigliamento sono andate a ripescare una norma del codice  civile, il contratto di associazione in partecipazione, solo per risparmiare sul costo del lavoro.
Negli ultimi anni è un vero boom. Ragazze ingannate dalle sirene di un contratto «sicuro» spiegato senza specificare i rischi che comporta. Sì, perché l`associazione in partecipazione non è un contratto  subordinato. È una formula con cui «l`associato» decide di partecipare agli utili e alle perdite dell`impresa. E il suo salario varia in base al successo dell`azienda. Ma si tratta solo di una copertura per l`ultima frontiera del precariato. In questi giorni Filcams e Nidil Cgil lanciano la campagna ”Dissociati”, con lo slogan: «Associati in partecipazione per fare i commessi? Non fatevi prendere in giro», corredata da una cartolina con un  pesce rosso che nuota controcorrente rispetto al branco di pesci gialli. Tutte le lavoratrici e i lavoratori che subiscono questo ricatto hanno un sito internet a disposizione (www.dissociati.it) per raccontare le loro storie e avere informazioni su come ribellarsi, contando sull`aiuto del sindacato.  «Nell`oceano dei 4 milioni di precari, l`associazione in partecipazione è una delle formule peggiori e noi lavoriamo perché questi lavoratori vengano allo scoperto e rialzino la testa», attacca Mena Trizio, segretario generale Nidil. «Noi nel terziario siamo la nuova frontiera del precariato, l`associazione in compartecipazione denota il tragico declino delle strategie delle imprese, oramai usano la fantasia solo per trovare modalità per risparmiare il più possibile sul costo del lavoro», gli fa eco Franco Martini, segretario generale Filcams. Ma quanti sono in Italia le ragazze, ma non solo, che sono cadute in questa trappola? La risposta è difficile. Gli unici dati sicuri sono quelli della gestione separata Inps. Parlano di 52.459 associati, una delle poche categorie in aumento rispetto al 2009. «Ma potrebbero essere perfino il doppio – spiega Daria Banchieri della Filcams – perché poche aziende al momento della firma del contratto spiegano al lavoratore che deve essere lui ad iscriversi all`Inps. Quindi questi 50mila sono quasi certamente quelli che hanno scoperto il trucco e a questi vanno aggiunti tutti quelli ancora ignari della situazione, quelli che vogliamo raggiungere con la nostra campagna». Dati più certi invece sul reddito che percepiscono: la media dichiarata dall`Inps è di 8.919 euro che, divisi  per le 14 mensilità previste da questo tipo di contratto, danno una media di 640 euro al mese. Una vera miseria. Molto meno della metà del salario perfino di un lavoratore a tempo determinato, visto che su questa cifra vanno poi versati i contributi. La «martire», «il precedente giuridico» della campagna spera di essere Tamara, 35enne sarda trapiantata a Bologna. «Ho visto un annuncio sulla vetrina del negozio: «Cercasi responsabile».
Dopo un colloquio di mezz`ora mi hanno richiamata: «Il posto è tuo». Il mio ragazzo studiava Giurisprudenza e sapeva che quel contratto prevedeva la parte sulle perdite. Prima di firmare chiesi della faccenda alla responsabile d`area e lei mi rispose: “Non ti preoccupare perché l`azienda non ha mai chiesto soldi indietro a nessuno”. Mi dissero continua Tamara – che avrei controllato il negozio e invece non ho potuto mai fare neanche un`ordine d`acquisto. Con me c`era un`altra ragazza con lo stesso contratto e una terza con l`apprendistato, l`unica altra forma di contratto che oggi si usa. Non dovevamo avere orario, però ci imponevano di essere una all`apertura e una alla chiusura, più due ore
di compresenza per organizzare il negozio: totale molto più di 8 ore. In più le domeniche e i periodi di “saldi” e Natale con orari assurdi, senza nessun riconoscimento in busta paga. Una busta paga fatta di ”anticipi” fissati rispetto al rendiconto annuale e con una percentuale sugli utili che varia da negozio a negozio, solo per far venire il totale sempre uguale a 1.000 euro al mese, come ho scoperto dopo parlando con  altre ragazze che hanno fatto la mia fine». NOVE MESI DA INCUBO Il calvario di Tamara è durato nove mesi. «Nove mesi di inferno e di cazziate, fatte dalla responsabile d`area che veniva due volte a settimana e ci prendeva a male parole anche da- vanti ai clienti e alla ragazza apprendista». Un calvario finito quando Tamara ha deciso di rivolgersi alla Cgil. «Subito l`azienda mi mandò la lettera in cui mi chiedeva di restituire ben 11.350 euro, contro i 9mila ricevuti, a causa delle “perdite” del negozio a cui io avrei dovuto associarmi, come da contratto. Ho avuto  questa forza e adesso la Cgil mi dà quella di andare fino in fondo». La forza di non firmare il tentativo di conciliazione, quando «una dirigente venuta da fuori senza avvocato mi offrì duemila euro in cambio della mia firma per dichiarare che il contratto in associazione era stato corretto». Ora invece Tamara ha deciso di fare causa all`azienda.
È la prima a «rialzare la testa».?
L’Unità 13 novembre 2011